“I luoghi di lavoro sono più sicuri di qualche anno fa, c’è maggiore prevenzione, eppure si continua a morire. E’ questo il dato con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Sono stati fatti passi in avanti importanti, ma la strada è ancora lunga”. Mario Fronduto, consulente in Medicina del Lavoro per diverse società regionali e nazionali nei settori del terziario, dei servizi e della produzione, si è formato e avviato professionalmente presso l’Università Cattolica di Roma.
“Le leggi non bastano, è chiaro. Forse, prima della normativa, sarebbe stato opportuno investire in formazione e informazione – osserva – iniziando magari dalle scuole, perché i lavoratori, nonostante tutto, continuano ad avere una percezione ed una conoscenza inadeguate delle problematiche legate alla sicurezza. Stesso discorso vale per i datori di lavoro, anche se è auspicabile che la maggiore informazione degli ultimi anni ci consegni in prospettiva una classe dirigente più attenta e sensibile”.
Professore, perché si continua ad investire poco in sicurezza?
Per problemi culturali, ma anche di costi, spesso troppo elevati soprattutto per le piccole e piccolissime realtà che, in un contesto di crisi e di difficoltà finanziarie, faticano ad investire. Per le realtà medio-grandi è invece più semplice sopportare certe spese sia perché vengono spalmate su un numero di lavoratori più alto sia perché hanno più facilmente accesso alle misure e agli incentivi previsti, spesso inaccessibili per le realtà imprenditoriali più piccole. Un quadro non certo tranquillizzante se si pensa che l’ossatura produttiva del nostro Paese è composta soprattutto da attività di media e piccola dimensione.
Quali sono i settori più a rischio?
Sicuramente l’edilizia, basta del resto dare un’occhiata ai dati sugli infortuni mortali e non. Così come si conferma un’attività industriale a rischio quella legata ai comparti chimico e manifatturiero. Tutto ciò che è produzione ha in ogni caso una componente intrinseca di rischio più elevata rispetto ad altri settori, anche se, come dimostrano ad esempio i dati di molti comparti del terziario, sono davvero poche le attività che possono dirsi sicure al 100 per cento. Posso dire che, almeno negli ultimi anni, si è andata progressivamente riducendo la pericolosità dei video terminali, mentre crescono i rischi legati all’ergonometria, e quindi all’ambiente in cui si lavora.
Come è possibile che tante imprese taglino sulla sicurezza? C’è anche un problema di controlli?
Diciamo che l’Organo di Vigilanza tende a muoversi in maniera autonoma in ambito nazionale, diversificando la sua attività e il suo metro di intervento, anche normativo, da regione a regione.
Cioè?
Ci sono realtà regionali in cui l’Organo di Vigilanza, prima di esercitare il suo potere sanzionatorio, dialoga con le imprese, fornendo un’attività di consulenza mirata. In altri contesti, e questo avviene soprattutto al centro-sud, il rapporto è meno collaborativo e più sanzionatorio.
Come si spiega questa forbice tra Nord e Sud?
Nel Nord c’è una sensibilità storica differente, anche da un punto di vista politico-amministrativo. Se al Sud una Regione è meno attenta e non legifera adeguatamente in materia, l’Organo di Vigilanza tenderà a limitarsi ad un’attività sanzionatoria, non trovando terreno fertile per un’azione di indirizzo e consulenziale.
Come si può superare questa dicotomia?
Il sistema andrebbe tarato diversamente e organizzato più a livello nazionale che regionale. Lo stesso discorso vale anche per l’impostazione del servizio sanitario, demandato ormai tutto alle Regioni, con inevitabili disomogeneità sul territorio.
Professore, proviamo a tornare un attimo indietro nel tempo. Crede che, sul fronte della sicurezza nei luoghi di lavoro, siano stati raggiunti risultati importanti?
Non c’è dubbio, è cambiato tutto. E’ giusto ricordare che la medicina del lavoro nasce tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, nonostante oggi si tenda ad ascriverla agli anni ’90. Allora i medici competenti, come del resto fino agli anni ’50, si chiamavano medici di fabbrica ed operavano essenzialmente in industrie di carbone, in fonderie o produttive. Avevano il compito di curare chi si ammalava al lavoro e non facevano certo prevenzione, se non empirica e con i pochi mezzi che avevano a disposizione.
Quando il sistema è cominciato a cambiare?
Dagli anni ’50 in poi, quindi nel dopo-guerra. In quegli anni la medicina del lavoro si è meglio connotata, anche con un profilo di prevenzione tratteggiato dalle varie leggi in materia, tra cui quella sul rumore, la 303 del 1956, precursori di quello che oggi chiamiamo valutazione del rischio. In quegli anni si è iniziato a fare attività di prevenzione sulle persone, ma ancora poco sull’ambiente di lavoro. Solo con la legge 626 del 1992 la prevenzione è entrata prepotentemente nelle dinamiche del lavoro con il medico competente che ha assunto un ruolo non più circoscritto alla cura, ma di analisi e prevenzione. Da allora si è aperta una nuova fase, in continua evoluzione. Ecco perché non ho dubbi nell’affermare che è stato fatto un percorso importante. Oggi si lavora in condizioni migliori, i luoghi di lavoro sono più sicuri per tutti, ma è chiaro che questo non può bastare. Ci sono i morti, i tanti infortuni che si registrano ogni giorno, a ricordarcelo. Abbiamo il dovere di andare avanti insieme, ognuno con le proprie competenze e le proprie conoscenze. La sicurezza è un patrimonio di tutti, non dimentichiamolo.