“La cultura della sicurezza siamo noi, dipende direttamente da noi, dai nostri comportamenti. Più vado avanti nella mia professione, più mi rendo conto che siamo all’anno zero, perché ogni progetto sulla sicurezza non mette mai davvero al centro l’uomo”.
Francesco Altobelli, medico e formatore specializzato in Sicurezza e Primo Soccorso, pubblicherà entro la fine dell’anno un libro dal provocatorio titolo “Io non mi faccio male”. Impreziosito da una prefazione della dottoressa Flavia Fumo, medico competente, specialista in Igiene e Medicina Preventiva, il testo pone al centro dell’attenzione la questione sicurezza, auspicando una presa di coscienza collettiva. Nel 2004 Altobelli pubblicò il libro “Sicurezza a casa mia”, in cui affrontò un altro tema molto sentito, quello dei campi elettromagnetici, sottolineando anche il paradosso delle mamme che, in quegli anni, scendevano in piazza per dire no ai ripetitori dei telefoni sui tetti delle scuole, spesso ignorando che il problema, tra elettrodomestici e altro, ce lo avevano anche e soprattutto in casa.
Dottore, perché dice che sulla sicurezza siamo all’anno zero?
Serve una diversa percezione del problema nella quotidianità, nei nostri comportamenti abituali. Le faccio un esempio: si parla, ormai da tempo, dell’imminente arrivo del 5G. Nel 2023 ogni palazzo avrà un’antenna sul tetto, eppure nessuno sa quali saranno le ricadute epidemiologiche, non si fa nessun tipo di analisi su quelle che saranno le conseguenze per la nostra salute. Le sembra normale? Dov’è lo Stato? Perché non si fa chiarezza per tutelare davvero i cittadini?
Eppure è oggettivamente vero e riscontrabile che, rispetto a qualche anno fa, siano stati fatti passi in avanti importanti. Oggi c’è una maggiore diffusione della cultura della sicurezza.
Non c’è dubbio. Io mi occupo di formazione da anni e le posso dire che nel 2016-2017 in Campania sono stati salvate una quindicina di persone grazie al pronto intervento, al massaggio cardiaco operato da persone che avevo formato personalmente.
E allora? Perché ritiene che siamo ancora così in ritardo?
La verità è che si è pensato sempre a creare la legge per mettersi a posto, senza mai dare priorità all’uomo. Il decreto legislativo 81 è un faro enorme che ha evidenziato responsabilità e competenze precise, ma, ripeto, non c’è attenzione la giusta attenzione alla percezione del pericolo e, quindi, alla sicurezza. E’ chiaro che in questo modo non si forma la persona.
Può fare qualche esempio?
Basti pensare agli incidente domestici, dove la sicurezza, proprio perché ci sentiamo a casa e al sicuro, viene completamente accantonata. Non può neanche immaginare quanti incidenti riesce a causare un semplice cambio di stagione. Crediamo di essere immuni da ogni pericolo, ma non è così. La memoria percettiva è fondamentale eppure non è considerata se, come poi avviene ogni giorno nella realtà, sono tante le persone che incappano nello stesso infortunio, a casa come nei luoghi di lavoro. Per questo continuo a sostenere che la percezione del problema sicurezza sia fondamentale. Invece questo concetto, che dovrebbe essere semplice e banale, sfugge dal nostro controllo anche perché siamo inondati quotidianamente da informazioni di ogni tipo che facciamo fatica a gestire, a danno di quelle davvero utili per noi. Un circolo vizioso che porta la persona, l’essere umano in secondo piano.
Cosa bisogna fare per provare ad invertire il trend e portare la persona al centro degli interventi e le misure che riguardano la sicurezza?
Bisogna investire seriamente in prevenzione con formazione continua e iniziative di sensibilizzazione mirate. E’ arrivato il momento di mettere in campo iniziative concrete, progettate e realizzate per un’utilità collettiva e non solo per mettersi in regola. Credo che in questo senso tocchi prima di tutto alla Regione, alle Provincie e agli enti territoriali più in generale, darsi da fare. La verità è che ci siamo evoluti nell’approccio culturale, ma operativamente non ci siamo. Si continua a parlare di cultura della sicurezza come se fosse qualcosa che debba essere calata dall’alto, come se dipendesse dallo Stato, o da chi ci governa, e non da noi. La sicurezza è invece un concetto che deve rientrare nei gesti della quotidianità: se in auto vogliamo parlare con il telefonino dobbiamo usare gli auricolari, così come i limiti di velocità vanno rispettati. Per non parlare della cintura di sicurezza, da mettere sempre e comunque. Quanti di noi rispettano queste semplici regole? E’ chiaro che se non siamo capaci di osservare questi principi elementari nella nostra vita di tutti i giorni, diventa tutto più complicato nei luoghi di lavoro.
I settori più a rischio restano sempre l’edilizia e l’agricoltura?
La casistica dice questo, ma c’è anche un sottobosco di patologie nuove legate ad alcune attività delle quali non si ha ancora una percezione precisa. Magari ce ne accorgeremo tra qualche anno. Comunque mi sembra evidente che i settori più a rischio restino quelli in cui c’è un’illegalità più diffusa, dove c’è minore attenzione e rispetto della normativa in materia di sicurezza. E’ inoltre innegabile che su certe dinamiche incida anche l’aspetto economico, perché una piccola realtà, magari in difficoltà finanziarie, difficilmente investirà in sicurezza, ma tenderà piuttosto a tagliare. La sicurezza va anche sostenuta e incentivata. Serve un lavoro capillare, in profondità che, purtroppo, è ancora agli inizi.